Di Parkinson non si muore. Da qui inizia la mia nuova vita
di Laura Soldati
Continuiamo la pubblicazione di testimonianze di coloro che vivono la malattia ed il disagio che comporta. Questa volta è un racconto.
La prima volta ho letto il libro “di Parkinson non si muore” di Ermes Carassiti tutto d’un fiato. Per me si trattava di una persona che aveva avuto il coraggio di scrivere la sua storia, insomma di uscire dall’anonimato e rendere pubblico il fatto di essere malato di Parkinson.
Mentre proseguivo curiosa nella lettura mi identificavo sempre di più nell’autore; sentimenti contrastanti si susseguivano velocemente, così passavo dalla commozione alla rabbia, perché le situazioni da lui vissute nell’apprendimento della diagnosi le avevo vissute anch’io allo stesso modo.
Lo stesso smarrimento, la stessa rabbia, il rifiuto della diagnosi, il voler nascondere il tremore agli occhi della gente, voglia di saperne di più, incominciare a conviverci e ad accettare la realtà; per me finiva lì.
Non mi andava tanto di ironizzare sulla sfortuna che mi era capitata, come invece l’autore aveva fatto nel descrivere il suo Parkinson.
La figura del neurologo era già entrata nella mia vita da qualche anno, quando, andata in pensione, mi ero decisa a curare una sindrome ansioso depressiva, accompagnata da stanchezza cronica dolori articolari e muscolari e insonnia. Ma la situazione non migliorava, anzi i farmaci che assumevo avevano manifestato alcuni effetti collaterali definiti dal neurologo “extrapiramidali” una parola da vocabolario; in realtà avevo il dito mignolo della mano sinistra che mi faceva sentire una di quelle signore un po’ retrò quando sorseggiano un tazzina di caffè, e un tremore incontrollabile che peggiorava nei momenti di tensione al braccio e gamba sinistra. Ma la cosa che mi faceva più soffrire era che i miei figli interpretavano questo mio, chiamiamolo, disagio come pigrizia a svolgere i compiti da nonna.
Il neurologo andava dritto sempre nella direzione della depressione e mi ha cambiato la cura; ma non erano spariti gli effetti collaterali; intanto i mesi passavano e io stavo sempre peggio, al tutto si era aggiunta una rigidità di tutto il lato sinistro del corpo e la mia postura stava cambiando. Tanto che, fortunatamente, ora lo posso dire, mi si riacutizzò una vecchia ernia discale, che mi portò a farmi curare da un fisioterapista.
Cara signora mi disse: non è tanto la sua ernia del disco a preoccuparmi; piuttosto le consiglio di tornare dal suo neurologo perché secondo me lei ha tutti i sintomi della malattia di Parkinson.
Ricordo ancora che era la fine di giugno e come ogni estate mi ero già trasferita al mare; iniziai tutta una serie di accertamenti specifici presso la stessa Clinica Neurologica che mi aveva seguito per la depressione, con viaggi estenuanti da Rimini a Bologna in treno; ancora adesso mi chiedo dove ho trovato la forza.
Nel giro di 15 giorni la condanna certa e inesorabile mi fu sbattuta in faccia senza alcun ragionevole dubbio; la cosa più atroce fu il come: per mezzo di un anonimo e laconico pezzo di carta che conteneva anche il nome dei farmaci che avrei dovuto assumere.
Non potrò mai perdonare la mancanza di tatto e di umanità con la quale mi sono sentita gettare dietro le sbarre del carcere a vita.
Questo allora era il mio stato d’animo. Per fortuna, lo stesso fisioterapista, quando a settembre rientrai dalle vacanze, mi indirizzò all’Associazione Iniziativa Parkinsoniani di Bologna.
Da quel giorno le cose sono andate sempre meglio; l ’ambiente familiare e gioioso, dove io frequento i corsi di yoga, logopedia con musicoterapia e saltuariamente qualche lezione di attività motoria mi hanno ridato la voglia di vivere e di lottare. Stare insieme ai compagni e amici dell’associazione è un’esperienza ogni volta gratificante e stimolante.
Sono passati due anni da quando ho letto il libro “di Parkinson non si Muore” e ho preso coscienza del fatto che noi malati di Parkinson se vogliamo possiamo fare riemergere dal profondo del nostro pozzo la nostra parte migliore; ho ritrovato in me un potenziale creativo che avevo dimenticato di possedere; così ho riscoperto la passione della fotografia, mi sono iscritta ad un corso di arte terapia dove imparo le tecniche per dipingere ad acquerello, scrivo articoli per il giornalino di Iniziativa Parkinsoniani, e ora ho avuto anche la gratificazione di essere iscritta nel consiglio direttivo dell’Associazione.
Quando meno te l’aspetti c’è sempre l’opportunità che qualcuno di porga un remo, come dice l’autore del libro, per non affogare nel mare nero della malattia; anzi a volte nei momenti un po’ “giù” con i miei amici mi viene da dire: ”coraggio ragazzi in fondo a noi ci è toccato solo il Parkinson”.
Ho capito che se “di Parkinson non si muore” dobbiamo mettercela tutta, non abbassare mai la guardia, conoscere bene questo compagno inseparabile, saperci convivere e assecondarlo nelle sua bizzarria…
Quando mi capita di parlare con persone appartenente sia alla schiera dei sani che dei miei amici parkinsoniani mi sento dire: ”ma stai benissimo non si direbbe proprio che hai il Parkinson”; è vero occorre tenerlo a braccetto con disinvoltura ma anche con tanto rispetto perché lui sa fino dove posso arrivare e me la fa pagare quando non l’ascolto.
Dopo cinque mesi mi è venuta voglia di rileggere il libro. Con stupore mi sono resa conto che era come se lo leggessi per la prima volta; non era un problema di memoria. Ero io che ero profondamente cambiata.
L’attenzione e la riflessione nella prima lettura erano state messe da parte solo apparentemente dalla curiosità della scoperta; in realtà questo libro ha continuato a scavare nel mio pozzo per attingere quella forza di volontà che mi fa andare avanti e mi ha dato la consapevolezza che anche con il Parkinson si può avere una vita molto più piena di quella di prima. Dipende solo da me dalla mia testa dai miei pensieri e dalla sicurezza di fare parte di una comunità di persone con le quali mi piace stare.